Questa esclamazione o, meglio, questo grido lancinante non proviene dall’ultimo romanzo di Emanuele Trevi, ma si legge in un altro suo libro di qualche anno fa. Poche altre frasi potrebbero tuttavia dare voce altrettanto bene allo spirito con cui anche Sogni e favoleè stato composto: lo spirito, ampiamente paradossale, della nostalgia per il secolo che più di ogni altro si era battuto per affermare la propria radicale diversità da ogni passato e che – nelle arti come in politica – si era immaginato come il primo vagito di un mondo ancora di là da venire, quando le cose sembravano giovani non soltanto a chi giovane lo era per davvero (ad esempio la voce narrante).
Le cose sono andate assai diversamente, e Trevi lo sa. Proprio il senso di una cesura che si è compiuta senza troppi clamori e senza le appropriate cerimonie degli addii è dunque oggi il motore della sua scrittura e della sua ricerca (i due termini qui sono sinonimi): lentamente e caparbiamente, come in un romanzo giallo che, indizio dopo indizio, intenda svelare chi ha ucciso il Novecento. In questo caso particolare, al centro del volume si stagliano tre individui eccezionali dalle esistenze variamente intrecciate – un grande fotografo americano espatriato, un critico potente e carismatico, una poetessa geniale –, mentre alle loro spalle, quale nume tutelare dei diritti della finzione e della potenza salvifica dell’arte, occhieggia sornione e comprensivo dalle lapidi di marmo della città il massimo librettista italiano del Settecento, Pietro Trapassi, meglio noto con il nome di Pietro Metastasio. In una ragnatela di storie e piccole coincidenze tocca a loro quattro guidare, ognuno a suo modo, il giovane Emanuele alla scoperta di se stesso e della propria vocazione, in un libro inclassificabile (romanzo, collezione di ritratti, guida di viaggio, autobiografia, o, come si dice oggi memoir…): un libro che, letto accanto ai volumi e ai ritratti biografici che Trevi ha dedicato negli scorsi anni agli ultimi bagliori del nostro XX secolo, assomiglia sempre più al tassello di una Commedia umanain fieri della Roma di allora.
Sì, quanto ci manchi, Novecento!
GABRIELE PEDULLA’
"Tu sei solo quello che riesco a pensarti": non è semplicemente l'attacco di una delle più belle poesie del libro di Renato Minore, "O caro pensiero", edito da Nino Aragno. Ma una presa di coscienza, un salto in lungo, una dichiarazione di poetica.
Questo verso vigoroso e astratto, piegato a caldo come un occhiello di ferro battuto, "Tu sei solo quello che riesco a pensarti", dimostra in realtà una tale apertura che il tusi dissigilla, si dilata, evade dal singolare, dal personale, dal ruolo di pronome. Si estende al circostante, al tempo, alla Natura, agli altri. Quel tuappassionato e solerte diventa collegiale, riguarda tutti, allude al passato, al presente e alla vita, coi suoi rintocchi e interruttori.
Del resto questo è il primo passo per ogni poeta che si rispetti. Come diceva Orazio nelle Epistole, "Chi crede in sé è già a metà percorso". Anche se Orazio pensava di sicuro a ogni creatura umana, non solo ai poeti.
Renato Minore, passo passo, è arrivato a un traguardo. Quell'attacco e questo libro sono un'inderogabile apertura di credito e insieme un bilancio spirituale ed esistenziale dalle forti radici: il tema dell'infanzia, la figura del padre, l'amore e l'incoerenza, il sapere e il patire, miti e capovolgimenti, perfino la morte in curva di Ascari, il pilota. Sì, proprio lui, Ascari il pilota. Un altro io. "Da quella fessurina", scrive Renato, "pare dipenda che io / sia proprio io e non l'altro io / che vorrei tanto esser io".
È bello chiedersi, converrete, se quella piccola fonte di luce e di comprensione, "quella fessurina", sia l'occhio che ci guarda, l'occhio col quale ci guardiamo attorno e dentro, oppure un terzo, misterioso Pensiero che neanche in poesia si può governare o stringere all'angolo. Perché, purtroppo o per fortuna, poeti o non poeti, domande del genere si mangiano la risposta.
ENNIO CAVALLI
Il saggio critico-biografico di Saverio Ricci su Campanella, felice risultato di una sollecitazione di Giuseppe Galasso, deve considerarsi solido e durevole approdo nella pur vasta letteratura riguardante quell’emblematico pensatore e uomo d’azione. L’opera di Ricci ha come presupposto documentario, essenziale, la finalmente completa edizione delle lettere di Campanella curata da Germana Ernst. Ricci ha adoperato questa imprescindibile fonte non priva di insidie con tutta la necessaria prudenza critica.
Questa biografia costituisce anche, nel cammino intellettuale di Saverio Ricci, il coronamento della sua indagine di lunga lena nell’universo mentale e pratico della Controriforma: dopo Il sommo inquisitoredel 2002 e dopo Inquisitori, censori, filosofi del 2008. Di fronte ad una ricerca così approfondita e capillare è giusto, per necessaria sintesi e sacrificando le molte ammirevoli sfumature, cavare un duplice positivo bilancio della virtuosa fatica. Della quale si apprezza per un verso la immersione feconda nella complessità labirintica della mentalità controriformistica, e per l’altro la capacità di guardare dentro un personaggio che ha rischiato di venir mitizzato nel corso del tempo e per ragioni estrinseche, restituendolo – con perizia storiografica e finezza di scrittura – alla sua umanissima e dolente ambiguità.
Luciano Canfora
Costanza Geddes da Filicaia
E-mail: segreterialetterariaviareggio@gmail.com
Letizia D’Amato Ufficio di Comunicazione
E-mail: info@letiziadamato.com