Questo romanzo pieno di grazie e di poesia ci racconta le peripezie del piccolo Fabio Mancini, alle prese con la sua bizzarra famiglia e l’ambiente che lo circonda, la Versilia degli Anni Ottanta. All’inizio della storia Fabio ha sei anni, vive con mamma, papà, nonna e nove fratelli del defunto nonno, gli zii-nonni, uomini ancora vitali e impetuosi che fanno a gara per impartire al nipote personali lezioni di vita, coinvolgendolo in attività ben poco infantili, in una dimensione adulta dell’esistenza che è quanto di più lontano dalla quieta infanzia dei compagni di scuola del bimbo. Il timore di sentirsi diverso, di essere suo malgrado condannato all’atavica bizzaria dei maschi della famiglia Mancini; e tuttavia la meraviglia della scoperta- giorno dopo giorno- del mondo che lo circonda, la fiducia nel futuro, nella solidità degli affetti importanti, nel valore taumaturgico delle parole, nella forza consolatrice del sapere e della conoscenza (anche la più spicciola, quella dei manuali) guidano Fabio nel delicato passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Sino a raggiungere la consapevolezza che essere diversi può essere una importante opportunità per arrivare ad esprimere la propria creativa unicità. Di pagina in pagina la storia avvince il lettore, piacevolmente coinvolto dal naturale sgorgare del racconto e dal continuo susseguirsi dei registri narrativi, dal riso alla commozione. L’autore, rinunciando a qualsiasi compiacimento autobiografico o ideologico, con straordinaria abilità cattura ed esprime lo sguardo puro e incantato del piccolo Fabio, il suo mondo interiore pervaso di timori infantili, d’inquietudini, di immaginazione, di meraviglia e di stupore. E nel momento più buio della storia quando è costretto a sperare nell’impossibile, riaffiora in Fabio l’esperienza iniziatica condivisa con l’amato babbo che un dì, per insegnargli a nuotare, lo ha precipitato nel mare della Versilia dove ha creduto davvero di affogare. Il mare dove non si tocca diventa dunque una metafora: il luogo, misto di paura e disagio, che capita a tutti di sperimentare nel corso della vita quando ci si trova a gestire situazioni più grandi di noi e ciò nonostante facendo appello alla propria forza d’animo si riesce a rimanere a galla.
F. D.
Giuseppe Lupo si è appropriato di una foto in bianco e nero e della famigliola lì raccolta, tra sellino e predellino di una Vespa targata 1968, data di partenza del suo romanzo con quella immagine in copertina. Un emblema del viaggio iniziato nell'Italia dai fondamentali ritrovati, non solo in economia. Una finestra sul passato che aiuta una persona, la cui memoria è terreno franato, a ricordare, a ricucire strappi. Sono trascorsi vent'anni e la parola passa all'ex bambina di pochi mesi, ritratta in braccio alla mamma, sul sedile posteriore della Vespa.
Autobiografia per acquisizione, dunque più vera del vero, quella che Lupo dipana tra proiezioni e resilienza. Diario sentimentale e coscienzioso, per segnalibro il destino e l'umanità di figure che ci rappresentano nel bene e nel male, nei sogni e nelle sviste protratte fino a oggi.
"Gli anni del nostro incanto". Se incanto è parola grossa, l'autore rincara la dose. "La foto di quel giorno", conclude con un guizzo, "è ciò che rimane della nostra eternità".
In questo libro di Roberta Dapunt (Sincope, Einaudi editore) il pensiero si svolge dentro un mondo distante, separato, fatto solo di silenzio e di solitudini tali da cancellare persino le normali possibilità di comunicazione fra gli individui, anche un semplice scambio di parole. In esordio, di fatto, si dà per scontato un lavoro ‘di minima’ del poeta, attento al massimo ad ascoltare «ogni battito / che dentro scava una miniera di sentimento ed emozione», i residui che restano unici a nutrire pochi versi e a ‘rappresentare’ un essere neppure sicuro di riconoscersi come tale. È dunque quello figurato nel libro di Dapunt uno stato di perdita e di assenza, figurato anche nel paese di Fego («paese dalle case interrotte, / eredità di un popolo sottratto», dalle porte chiuse, ante accostate, camini spenti, «quel paese del nulla succedere») o in una Carnia “pietra in silenzio” che diventa presto immagine più propria e diretta del poeta, stato di perdita e silenzio pur esso dentro il quale Dapunt va in cerca di una qualche illusione o artificio – un ‘fardello d’incanto’ – sensazioni o persino illusioni nel teatro del linguaggio che possano dare un senso, pur elementare e ridotto, al vivere e ai versi che ne vengono. Si intende che sarà proprio questo silenzio onnipervasivo a sostituire degnamente e produttivamente la cadenza inerte dei giorni e delle notti, il vivere più ordinario, finanche il dialogo coi propri simili («mi rimane di starmi zitta dentro / per sentire meglio e scrivere e basta»), essendo questo silenzio «lingua di tutte le lingue, / comprensione totale posta sul desiderio di capire / e di farsi capire».
Dunque è specie dentro il tempo immutabile di un maso di montagna, dove il «numero dei giorni e delle notti [è] quantità senza altre aggiunte», che può nascere l’attaccamento a una terra forse più eloquente di un paradiso – per ricordare a distanza il titolo di un’altra raccolta di poesie di Dapunt – e allora anche versi che si affaccino «senza narrazioni sacre di avvenimenti, / senza i racconti in dottrine di imprese e di gesta, / senza le origini di dèi e di eroi», una poesia cioè che sia sutura «che avvicina i lembi di una vita», fatta di congiunture appunto, poche, labili eppure decisive perché ‘tracce immutabili di rinnovamento, beneficio di un vivere consueto lasciato in abbandono dai tanti. Ciò che conosciamo da sempre, ora ci succede di riconoscere soltanto’. Sono pochi movimenti ed eventi, che coincidono niente affatto con l’avvio di avventure, viaggi o imprese quanto piuttosto col rimanere e il riconoscere: «costruendo un racconto / e dentro ad esso la riconoscenza di appartenenza. / Esserci. Nella cura e nel riguardo, qui è la nostra identità».
Ecco insomma che il silenzio, l’assenza, la solitudine (“unico lasciapassare che non sarà chiesto”), la negazione di identità e verità acquistano progressivamente a questa poesia la possibilità di una salvezza, diventano «confluenza di percorsi, lettura di scritture»: «io scriverò dei suoni, delle sensazioni percepite – scrive Dapunt – Alte e acute, basse e cupe sensazioni, che da queste fisserò per te stupori, / meraviglie inverse, invisibili scenari … distenderò la voce di ogni secondo / e saranno secoli di cori la nostra sacra conversazione»; la poesia diventa un ‘abitare’ la terra, un restare fedeli ad essa … ma per ottenere che cosa? Poco, pressoché nulla (non è certo una conquista il fine di questa poesia), magari un epitaffio di poche parole o un semplice nome che però porterà compresso dentro tutto ciò che di noi vale. E chiudo con versi di Roberta Dapunt che dicono il massimo di questa condizione minima dello stare, del rimanere, del cercare l’accordo fra noi che viviamo e il luogo che ci ospita:
«abitare è la parola che unisce oggi a domani./Abitare, poiché è unità di misura indiscutibilmente ricca/che comprime un tempo intero dentro ai giorni contati della vita./Abitiamo poeticamente,/non perché la poesia è una finitura aggiunta all’abitare,/ma perché è atto di fare, di noi che abitiamo i luoghi del corpo,/nell’azione, nell’opera e nel lavoro./Dentro, lì dove noi ci riconosciamo,/abitiamo luoghi solenni e sono luoghi interiori,/compagni di identità e resistenza. Per una decisione avvenuta/e la scelta di esporsi in uguale misura ai fieni e all’arte».
Dal tempo in cui un grande storico inglese, Sir Ronald Syme, con The Roman Revolution (1939), rinnovò la storiografia sul passaggio dalla tarda repubblica romana al principato di Augusto studiando capillarmente i gruppi dirigenti e la loro mobilità a continuità all’interno di una macchina statale orami più complessa e del passaggio da un regime all’altro, quel metodo ha influenzato in modo decisivo la storiografia ben oltre i confini del mondo antico. Il raffronto con l’opera di Guido Melis, La macchina imperfetta, non è casuale: sia per il metodo, sia per il fenomeno storico che lui ha studiato, cioè il passaggio da plurilesionato stato liberale allo stato fascista. Quest’ultimo, peraltro, insistentemente si proclamò erede dell’archetipo augusteo suggerendo ai propri intellettuali di argomentare, quanto possibile, in proposito. L’opera di Melis è divisa in quattro parti: governo e amministrazione, partito, leggi e istituzioni, economia pubblica. In modo particolare nella prima parte (governo e amministrazione) Melis mette in luce la continuità degli uomini rispetto allo stato liberale, e soprattutto la persistenza di prassi politiche e amministrative già ben consolidate. Così il lettore può osservare come il fascismo abbia governato servendosi, nei gangli vitali dell’apparato statale, degli alti funzionari del periodo prefascista. E per parte sua il lettore di Roman Revolution può osservare analogo fenomeno quando passa in rassegna le esperimentate famiglie, già repubblicane, cui il princeps affidò – salvo improvvise campagne di epurazione – la gestione delle province e delle legioni; per non parlare dell’organo continuista per eccellenza, cioè il Senato. Altro macroscopico elemento che accomuna le due vicende. Melis sa efficacemente compenetrare affreschi complessivi e primi piani di personaggi-chiave, procurando, su questo terreno, vere e proprie scoperte. Un esempio per tutti, il caso assai interessante del corporativista di sinistra Paolo Fortunati. Disponevamo, nella biografia defeliciana, di una monumentale materies, talvolta accatastata; ora disponiamo, per il cruciale e sempre ritornante fenomeno del fascismo italiano, di un vero e durevole libro di storia. L. C.
Costanza Geddes da Filicaia
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